Festa Patronale Brindisi, il discorso dell’Arcivescovo Mons Giovanni Intini alla città dopo la processione per mare
Signor SINDACO,
Gentilissime AUTORITÀ civili e militari,
Amiche e amici qui convenuti,
anche quest’anno la festa dei nostri Santi Patroni, San Teodoro D’Amasea e San Lorenzo da Brindisi, ci offre uno spazio di riflessione sulla vita della nostra città.
Ci tengo a ribadire che la mia riflessione non vuole invadere il campo di nessuno e non è mio desiderio impartire lezioni a nessuno; ma prendo la parola solo per condividere alcuni pensieri che auspico possano essere di aiuto non solo ai credenti di questa città ma anche a tutte le donne e gli uomini disponibili a camminare insieme per il bene e la crescita della nostra comunità.
Stiamo vivendo una stagione culturale dove il benessere personale e la felicità individuale è anteposta a qualsiasi altra responsabilità, scelta di vita, partecipazione alla costruzione del bene comune, impegno sociale, politico e religioso. Lo spazio che siamo disposti a percorrere è quello ristretto dall’io al mio, marginalizzando tutto quello che risulta estraneo a noi stessi e mette in crisi le certezze personali.
Questi elementi assunti a parametri ispirativi dei nostri vissuti da parecchi di noi, credenti e no, mettono decisamente in crisi due elementi importanti del nostro vivere sociale e comunitario: l’appartenenza e la partecipazione.
APPARTENENZA
«L’appartenenza, non è lo sforzo di un civile stare insieme, non è il conforto di un normale volersi bene.
L’appartenenza è avere gli altri dentro di sé. L’appartenenza non è un insieme casuale di persone; non è il consenso a un’apparente aggregazione; l’appartenenza è avere gli altri dentro di sé», cantava così Giorgio Gaber nella Canzone dell’appartenenza.
Avere gli altri dentro di sé: è quello che noi spesso rifiutiamo, convinti come siamo che l’altro, con la lettera maiuscola o minuscola, bianco o di colore, estraneo o di famiglia, non deve occupare la mia vita e togliermi il respiro dell’autonomia.
Dobbiamo ritrovare la bellezza dell’appartenenza come condivisione di umanità, di spazi, di tempi, di progetti, di sogni per tracciare una visione di società comune, condivisa e sostenibile per tutti, e orientata al futuro.
Ancora Gaber ricordava che l’appartenenza è assai più della salvezza personale…e poi concludeva con una certezza: Sarei certo di cambiare la mia vita se potessi cominciare a dire “noi”.
È tempo di ritrovare il noi, per ritrovare l’appartenenza a una comunità che è la nostra casa comune, dove intrecciando il contributo di tutti si può progettare una città che possa proporsi come cantiere in cui la convergenza delle diversità diventa spazio di benessere comune, perché nessuno si senta abbandonato o cittadino di serie B.
Passata la nube oscura del Covid, che sembrava averci fatto comprendere che eravamo tutti nella stessa barca e che i nostri destini erano interconnessi, siamo tornati alle nostre vecchie abitudini di chiusura in noi stessi, fonte che genera solitudine e indifferenza; certo coltiviamo tutti l’illusione del connettersi via social, che fa credere ai più che sia questo il partecipare, l’appartenere, il comunicare.
Papa Francesco nella Fratelli tutti, parlando della illusione della comunicazione, scrive: «La connessione digitale non basta per gettare ponti, non è in grado di unire l’umanità» (FT 43); cioè, la connessione è facile ma non produce necessariamente relazioni, perché entrare in relazione vuol dire mettere in gioco se stessi: è una questione di scelta, una questione di sguardi.
Dobbiamo ritrovare il gusto di un incontro tridimensionale con l’altro, cioè, mediato dalla voce, dallo sguardo e dal corpo.
Certo, ognuno sceglie modalità diverse di appartenenza; molti oggi si sentono al sicuro scegliendo di appartenere a una comunità chiusa, che considera gli altri come nemici e da sicurezza ai soci, ma finisce per disumanizzare le persone.
Chi di noi si ispira a una antropologia cristiana, sa che il legame con l’altro è sempre letto nella prospettiva del dono, che è un invito ad uscire da sé, per creare relazioni di appartenenza.
A questo proposito, sempre Papa Francesco, nella Fratelli Tutti, ci illumina: «Un essere umano è fatto in modo tale che non si realizza, non si sviluppa e non può̀trovare la propria pienezza “se non attraverso un dono sincero di sé”. E ugualmente non giunge a riconoscere a fondo la propria verità se non nell’ incontro con gli altri: “Non comunico effettivamente con me stesso se non nella misura in cui comunico con l’altro”.
Questo spiega perché́nessuno può̀sperimentare il valore della vita senza volti concreti da amare. Qui sta un segreto dell’autentica esistenza umana, perché́“la vita sussiste dove c’ èlegame, comunione, fratellanza; ed è una vita più forte della morte quando ècostruita su relazioni vere e legami di fedeltà̀. Al contrario, non c’è vita dove si ha la pretesa di appartenere solo a sé stessi e di vivere come isole: in questi atteggiamenti prevale la morte”» (FT 87).
Ritroviamo, allora il gusto di abitare il mondo, di abitare la nostra città, di appartenere ad un’unica umanità, che riconosce nell’altro un dono che ci fa uscire da noi stessi e ci fa diventare persone autentiche.
Non vogliamo vivere un’appartenenza che è campanilismo, gioco di parte, appartenenza a circoli chiusi per la difesa dai nemici; l’appartenenza da costruire e coltivare è segnata dalla logica del camminare insieme e forse non a caso siamo attraversati dalla Via Appia, antica maestra di cammini, incontri, scambi e prospettive di ricchezza umana, culturale, economica, religiosa e politica.
La felice circostanza della proclamazione da parte dell’UNESCO, della Via Appia come patrimonio immateriale dell’umanità, oltre ad aprire la strada a tante opportunità, è per noi una silenziosa testimonianza di come solo creando cammini, comunicazioni, contaminazioni, incontri e scambi culturali, sociali, religiosi, politici si può fare dell’appartenenza una possibilità di partecipazione attiva alla costruzione di una città-cantiere, dove sia possibile progettare, pensare, realizzare non una città che si guarda l’ombelico, ripiegata su se stessa, né una città che continuamente rimpiange di essere inferiore o trascurata rispetto ad altre, ma una città che emerge per capacità propositiva, progettuale, inclusiva e che sa guardare oltre l’orizzonte per cogliere le opportunità che questo tempo offre. Una città che sappia, con senso genuino di appartenenza e interesse di partecipazione, progettare e realizzare, col contributo di tutti, uno sviluppo MADE in BRINDISI, dunque non mutuato o copiato da contesti urbani differenti
LA PARTECIPAZIONE
Nel discorso tenuto a Trieste a luglio scorso, in occasione della cinquantesima Settimana sociale dei cattolici italiani, Papa Francesco ha usato l’immagine del cuore per parlare della partecipazione.
Diceva testualmente: «…possiamo immaginare la crisi della democrazia come un cuore ferito. Ciò che limita la partecipazione è sotto i nostri occhi. Se la corruzione e l’illegalità mostrano un cuore “infartuato”, devono preoccupare anche le diverse forme di esclusione sociale».
Illegalità, corruzione, autoreferenzialità, esclusione sociale e difesa ad oltranza degli interessi di parte, scoraggiano e limitano gli spazi della partecipazione e, citando Aldo Moro, Papa Francesco proseguiva: «uno Stato non è veramente democratico se non è al servizio dell’uomo, se non ha come fine supremo la dignità, la libertà, l’autonomia della persona umana, se non è rispettoso di quelle formazioni sociali nelle quali la persona umana liberamente si svolge e nelle quali essa integra la propria personalità».
In questi anni la partecipazione democratica è tristemente calata, anche nell’espressione del voto e, tuttavia, è necessario che, oltre il voto, si creino le condizioni necessarie perché tutti si possano esprimere e possano partecipare e, come faceva notare sempre il Santo Padre, la partecipazione non si improvvisa, alla partecipazione si educa, soprattutto le giovani generazioni.
A questo proposito, noi cristiani dobbiamo fare di più, perché alla luce della Dottrina sociale della Chiesa, si possa lavorare a una corretta relazione tra religione e società, promuovendo un dialogo fecondo con la comunità civile e le istituzioni pubbliche, perché illuminandoci a vicenda e liberandoci dalle scorie ideologiche, possiamo avviare una riflessione comune sui temi legati al rispetto della vita umana, della dignità della persona e dei legittimi diritti di ciascuno al lavoro, alla cura, all’istruzione, a una vita dignitosa.
Tutti devono sentirsi parte di un progetto di comunità. La nostra città di Brindisi è carente di coscienza comunitaria, questo perché spesso cresce una coscienza atomizzata, che non converge in un tutto comunitario.
E qui, noi cristiani, abbiamo la nostra parte di colpa, perché spesso viviamo le nostre comunità parrocchiali non nello spirito di comunione che ci fa sentire unica comunità cristiana nella città, ma bensì come piccole comunità fortificate che cullano l’illusione di bastare a sé stesse.
È necessario tessere una rete di relazioni virtuose che devono servire da tessuto di fondo per relazioni più ampie, che devono diventare sempre più inclusive, partecipative e curative.
Prendo in prestito ancora le parole di Papa Francesco a Trieste: «Come cattolici, in questo orizzonte, non possiamo accontentarci di una fede marginale, o privata. Ciò significa non tanto di essere ascoltati, ma soprattutto avere il coraggio di fare proposte di giustizia e di pace nel dibattito pubblico. Abbiamo qualcosa da dire, ma non per difendere privilegi. No. Dobbiamo essere voce, voce che denuncia e che propone in una società spesso afona e dove troppi non hanno voce. Tanti, tanti non hanno voce. Tanti. Questo è l’amore politico, che non si accontenta di curare gli effetti ma cerca di affrontare le cause. Questo è l’amore politico. È una forma di carità che permette alla politica di essere all’altezza delle sue responsabilità e di uscire dalle polarizzazioni, queste polarizzazioni che immiseriscono e non aiutano a capire e affrontare le sfide. A questa carità politica è chiamata tutta la comunità cristiana, nella distinzione dei ministeri e dei carismi.
Formiamoci a questo amore, per metterlo in circolo in un mondo che è a corto di passione civile. Dobbiamo riprendere la passione civile […] Impariamo sempre più e meglio a camminare insieme come popolo di Dio, per essere lievito di partecipazione in mezzo al popolo di cui facciamo parte. E questa è una cosa importante nel nostro agire politico, anche dei pastori nostri: conoscere il popolo, avvicinarsi al popolo».
Come cristiani vogliamo accrescere il nostro stile di partecipazione per contribuire alla ricostruzione di una genuina appartenenza, premessa indispensabile per riappropriarci del senso di comunità.
Mi piace, in questa circostanza, richiamare quelle piccole luci di partecipazione presenti nella nostra città, nate in seno all’esperienza ecclesiale, che con spirito e passione solidale esercitano l’amore politico, nella cura del prossimo; mi riferisco alla Mensa delle parrocchie solidali, che ogni giorno accoglie per pranzo chi non può permetterselo, a Casa Betania, che da più di venticinque anni cerca di offrire un tetto sicuro, anche se momentaneo, a tanti senza fissa dimora, alla Casa degli aquiloni, che si prende cura di immigrati che cercano una dignitosa integrazione sul territorio, e a un Gruppo di volontari coordinato dalla Fraternità parrocchiale “San Carlo di Gesù” che, soprattutto nel periodo freddo dell’anno, cercano di offrire assistenza a chi vive per strada.
Certamente piccole gocce in un mare di bisogni, ma si può e si deve fare di più, soprattutto, se più persone prenderanno a cuore di partecipare mettendo a disposizione tempo, energie e impegno.
Termino, auspicando che la Via Appia, tornata al centro delle nostre attenzioni, faccia nascere in noi il desiderio di metterci in cammino per percorrere strade di speranza che alimentino le speranze del quotidiano: la speranza dei lavoratori di conservare dignità e posto di lavoro; la speranza dei tanti immigrati che abitano la nostra città di vivere dignitosamente;
la speranza che sacche di illegalità che si muovono nel sottobosco della nostra città e condizionano spesso progetti di sviluppo possano essere definitivamente cancellate; la speranza che un ritrovato e genuino spirito di appartenenza generi nuova e responsabile partecipazione alla vita sociale, politica ed ecclesiale; la speranza che i nostri giovani siano aiutati a liberarsi dei falsi miti che spesso sono offerti loro non per la maturazione ma per la soddisfazione del bisogno immediato; la speranza che il mare sia sempre fonte di benessere per la nostra città; la speranza che siano creati sempre più sul nostro territorio spazi aperti a tutti di partecipazione culturale, sportiva, musicale, artistica perché la creatività dei singoli diventi patrimonio comune; la speranza che un orizzonte di pace sorga per l’umanità e tutto l’apparato di morte, distruzione e violenza che sta caratterizzando questi nostri tempi sia sotterrato.
Auguro a tutti una festa serena e un sereno cammino di vita.
+ Giovanni INTINI